Il Tar condanna lo Stato italiano a comunicare in lingua cinese

Giovedì scorso sono stato interpellato da un giornalista di Radio24 a proposito di una sentenza pronunciata dal T.A.R. del Veneto su un ricorso da me patrocinato.
Non ritenevo che la sentenza in questione, né il caso da cui traeva origine, fossero particolarmente interessanti: mi era parso, in altre parole, che il Giudice Amministrativo avesse accolto il ricorso applicando un principio pacifico, chiaramente codificato dalle norme del nostro ordinamento, senza dover ricorrere ad ardite interpretazioni della legge.
L'eco che la sentenza ha avuto sui mass media mi ha perciò sorpreso. Tanto che, quando la redazione di Radio24 mi ha contattato, stentavo a credere che addirittura la stampa nazionale, come mi veniva comunicato, avesse potuto interessarsi a quel caso.
"Il Giornale" del 31.3.2016 dedica in effetti un ampio articolo alla sentenza in questione titolando "Il Tar condanna lo Stato italiano a comunicare in lingua cinese".
Credo sia interessante analizzare la diversa prospettiva, giornalistica e giuridica, nell'interpretazione della sentenza.
Il fatto anzitutto.
La signora Y. F, cittadina cinese regolarmente soggiornante in Italia dal 2011, nel mese di dicembre del 2014, approssimandosi la scadenza del proprio permesso di soggiorno, presenta istanza di rinnovo.
In data 27.1.2015 la signora Y. F. viene convocata presso l’Ufficio Immigrazione della Questura di Padova per essere sottoposta agli adempimenti di fotosegnalamento di rito; nella medesima circostanza alla stessa viene notificata la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno.
La signora Y. F., alloglotta, non comprende il significato della comunicazione notificatale.
Nel mese di dicembre del 2015, non avendo ancora ottenuto riscontro alla propria istanza, la signora Y. F. chiede aiuto a un connazionale il quale la accompagna presso la Questura di Padova per verificare lo stato del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno. In quell'occasione alla signora Y. F. viene notificato il decreto di rigetto dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno oggetto di impugnazione. 
Nel predetto provvedimento si legge: "la notifica della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno alla Y. F. è avvenuta in data 27.1.2015 ... la medesima a tutt'oggi non ha prodotto la documentazione richiesta; ... l'inerzia dimostrata dalla straniera denota scarso interesse alla conclusione del procedimento finalizzato all'ottenimento del permesso di soggiorno richiesto".
Per queste ragioni la Questura di Padova rigetta l'istanza della signora Y. F..
Impugnando avanti al T.A.R. il provvedimento succitato, abbiamo tra l'altro evidenziato come l'omessa traduzione della comunicazione ex art. 10 bis L. n. 241/1990 in lingua cinese o quanto meno in una cd. "lingua veicolare" ha impedito alla cittadina straniera di partecipare al procedimento amministrativo interloquendo con l'Amministrazione e instaurando quel contraddittorio procedimentale imposto dalla legge sul procedimento amministrativo.
Scrive Serenella Bettin su "Il Giornale": "Provateci voi a non fare la dichiarazione dei redditi, a entrare in un ufficio e dire di non aver capito bene che documenti portare e a passarla liscia. Certo che no. Ma gli stranieri evidentemente sì. Ha del folle quello che è accaduto l'altro giorno in Veneto per la gioia di una cinese in Italia da cinque anni. La questura le nega il rinnovo del permesso di soggiorno, lei sarebbe destinata all'espulsione, fa ricorso, ma il Tar del Veneto annulla il diniego. Il tribunale, infatti, le ha dato ragione in quanto la richiesta della questura di allegare i documenti utili al rinnovo del permesso era in italiano e non le era stata tradotta in lunga cinese. (...) Spiegazione alquanto bizzarra dato che una cinese in Italia da cinque anni non può non masticare nulla di italiano. Rinnovo quindi negato ma la donna tramite il suo legale si appella al fatto che la richiesta avrebbe dovuto essere scritta nella sua lingua perché indirizzata a lei. E certo; perché adesso la polizia nelle questure dovrebbe anche sapere il cinese, l'arabo, il russo, il moldavo. Quando a noi per una semplice contravvenzione per divieto di sosta in uno stato estero, difficilmente il verbale ci viene tradotto in lingua italiana. Tant'è che le spese processuali della donna cinese indovinate chi le paga? Lo Stato. Sì, signori, lo Stato. Il ministero dell'Interno è stato, infatti, condannato alle spese processuali".
In realtà nella decisione del T.A.R. del Veneto non c'è nulla di folle.
La sentenza mi pare tanto corretta quanto laconica nella sua motivazione: "La censura sopra ricordata, la cui esattezza fattuale non risulta in alcun modo smentita dall'amministrazione che non ha ritenuto di costituirsi in giudizio, appare fondata e assorbente; invero, per costante giurisprudenza di questo Collegio, la effettività del contraddittorio procedimentale normativamente richiesto impone la verifica della comprensione dei motivi ostativi da parte del privato. Per quanto sopra il ricorso va accolto con il conseguente annullamento dell’atto impugnato".
Occorre, a mio avviso, tenere distinti due diversi piani di valutazione.
Una cosa è auspicare che i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia acquisiscano un sufficiente grado di conoscenza della nostra lingua. L'integrazione anche culturale degli immigrati è in effetti un valore su cui il Legislatore ha condivisibilmente investito - penso, ad esempio, alle norme del T.U.I. dedicate all'integrazione scolastica dei minori stranieri o alla recente introduzione nella disciplina dei requisiti per il rilascio del permesso UE per s.l.p. dell'obbligo di conoscenza della lingua italiana.
Altro è considerare imprescindibile che un provvedimento amministrativo, specie se incidente in modo negativo nella sfera giuridica del destinatario, non possa che essere adottato previo coinvolgimento, effettivo e non solo formale, del cittadino, italiano o straniero che sia, che, occorre assicurarsi, sia stato posto nelle condizioni di partecipare al procedimento all'esito del quale si forma la decisione dell'Amministrazione.
Il procedimento amministrativo non è una skills challenge, una prova di abilità o di sopravvivenza ma un dialogo tra cittadino (italiano o straniero che sia) e P.A., dialettica tanto indispensabile quanto correlata alla necessità di incidere su posizioni soggettive meritevoli di tutela se e in quanto ciò corrisponda all'interesse pubblico.
S.A.